L’intervista / “La Chiesa si apra ai social media”

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Su “A Conti Fatti”, un programma realizzato dalla redazione “EconomiaCristiana.it in onda su Radio Vaticana, si parla di Chiesa e Social media. Intervengono Mons. E. Dario Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, Michelangelo Suigo, presidente associazione “La Scossa” e don Alessandro Palermo, autore di questo blog e del libro “La Chiesa Mediale. Intervistato dal giornalista Giuliano Giulianini affronto la delicata e necessaria questione su “pastorale” e “digitale”, “Chiesa” e “comunicazione mediale”. L’intervista, pubblicata sul portale “EconomiaCristiana.it“, è andata in onda Domenica 7 e Lunedì 8 Maggio. 

Senza titolo“Facciamo crescere la fraternità e la condivisione: è la collaborazione che aiuta a costruire società migliori e pacifiche.” Questo è uno degli ultimi messaggi che ormai quotidianamente papa Francesco diffonde utilizzando uno dei mezzi di comunicazione più importanti del nuovo millennio: i social media. In particolare il suo profilo twitter, seguito da 4 milioni di persone nella versione italiana; quasi 11 milioni per quella inglese e circa 13 milioni nella versione spagnola. Il termine usato dal Papa, “condivisione”, è anche una delle parole chiave dei social network, le piazze virtuali dove ormai miliardi di persone si relazionano tra loro. Nella Chiesa c’è un dibattito sulla possibilità di aprire ai social media anche l’attività pastorale. Tra i promotori di questa ipotesi c’è don Alessandro Palermo, giovane sacerdote della diocesi di Mazara del Vallo, specializzato in “Comunicazione pastorale” e in “Pastorale digitale”, autore del blog “Elementi di pastorale digitale” e del libro “La Chiesa mediale

Don Alessandro, che cos’è la pastorale digitale, come la definisce? 

Io credo che sia un’azione mediale. Con i media la Chiesa, se vuole, può attivare reali relazioni con le persone. Non è una pastorale funzionale o strumentale, ma un’opportunità per fare della rete un’occasione per ascoltare e farsi ascoltare dal mondo.

Il suo libro, “La Chiesa mediale”, nasce da una tesi per la quale lei ha fatto un’indagine su quanto i parroci e le diocesi utilizzino la rete e le tecnologie nella loro attività. Può fornirci qualche dato? quanto sono multimediali le diocesi e le parrochie italiane?

In Italia circa 70 diocesi hanno scelto di aprirsi allo scenario dei social media. Sono poche, pochissime. Diversi sacerdoti si impegnano ad usare la rete come occasione di comunione, però prevale ancora la concezione che i social servano unicamente per informare, non per attivare altre opzioni. Siamo ancora all’inizio di una fase, anche comunicativa, di rinnovo secondo le logiche dei social media.

I social media… facciamone i nomi: Facebook, Twitter e le varie applicazioni che mettono in contatto le persone via internet; spesso hanno un’aura negativa. Lei però ha scritto che “non sono una moda del momento ma rendono ragione al legame uomo-media come continuum naturale”, e anche che “per essere luce del mondo occorre rendersi prima presenti sui social network”. Può definire un po’ meglio questa “apologia” del social media?

Ricordiamoci che noi, come Chiesa, non siamo “del” mondo però stiamo “nel” mondo, e questo mondo oggi è mediale: ovvero per comunicare occorre conoscere le dinamiche digitali e quindi aprirsi ai social media. Questi social che a volte non sappiamo come definire, io credo siano scenari impastati di umanità, di intenzioni e di bisogni umani. Già questi principi rendono la ragione della presenza di una chiesa in questi scenari.

Veniamo ad un esempio pratico che lei cita nel suo blog. God Morning è un servizio di una diocesi, che ha anche uno slogan abbastanza altisonante e spiazzante per certi aspetti: “Un buon giorno da Dio”, giocando sull’ambiguità god/good morning. Ce ne può parlare?

È stata un’iniziativa che ha permesso, nel tempo quaresimale, di portare in tasca il Vangelo in maniera semplice, chiara e attuale. Ma soprattutto ha coinvolto diversi giovani per raccontare la pagina evangelica del giorno con la loro testa. Tutto questo è stato possibile grazie ai media. Ecco perché, attraverso questi dispositivi, noi possiamo creare eventi comunicativi di grande valore.

Cito ancora alcuni passaggi del suo blog, su cui ha scritto che “i social network non sono bacheche su cui appendere notizie parrocchiale o diocesane, ma scenari per realizzare e sperimentare reali relazioni”. Comunicare il Vangelo su questi piazze virtuali non rischia di diminuire le esperienze di un incontro vero, reale, fisico nelle parrocchie? Le faccio l’esempio della televisione, la cui diffusione ha avuto come primo effetto lo svuotare i cinema, i teatri e anche le piazze, dove prima si riunivano le comunità, soprattutto nei piccoli centri. Non c’è questo pericolo anche con i social media?

La rete è come ogni cosa umana segnata da limiti e rischi; bisogna conoscerli per evitarli e superarli. Per farlo, dobbiamo diffondere le buone pratiche di presenza mediale. Dobbiamo educarci a stare in questi scenari, assumere quella competenza mediale che ci serve per evitare il rischio. Tutto quello che ha a che fare con la relazione digitale, tutte queste dinamiche di contatto, non sostituiscono quel contatto fisico, ma lo continuano anzi lo specificano come evento di condivisione e di comunione con tutta la Chiesa.

Molti parroci in Italia hanno un’età avanzata, quindi molto presumibilmente non hanno la padronanza dei nuovi mezzi digitali che ha un giovane sacerdote come lei. Che consiglio darebbe a questi suoi colleghi per entrare nel mondo di social media nella maniera più corretta possibile? A chi affidarsi?

Io credo che i maestri che possono aiutare ad usare i social siano i giovani, i ragazzi. Penso che siano loro i più importanti interlocutori a cui andare a chiedere come fare per comunicare efficacemente in questo scenario, perché loro sanno come si fa, sono quelli che lo fanno con semplicità e naturalezza; e credo che loro possano aiutare la Chiesa, come istituzione, ad avviare il suo piano di comunicazione in questo scenario.

Papa Francesco ha un profilo Twitter molto seguito, quindi anche lui utilizza e apre ai social media. Come è stata accolta nella sua diocesi e in generale nel mondo della comunicazione della Chiesa, questa sua istanza, che viene da un sacerdote del territorio?

Si, il Santo Padre è social. Non perché sia esperto di dinamiche digitali, ma perché il suo modo di comunicare rispecchia perfettamente i linguaggi digitali, che sono: essere autentico, chiaro e semplice. Quindi, quando il Santo Padre riflette un suo pensiero nei social ecco che diventa virale, si diffonde. Questo fa del Papa una figura social per eccellenza, a cui anche noi dobbiamo guardare per imparare a comunicare.
In questo mio contesto ecclesiale siciliano non c’è ancora una sensibilità a questi ambienti, non c’è ancora attenzione piena a una comunicazione digitale; e credo sia così un po’ ovunque in Italia. Siamo ancora convinti che solo i mass media (radio, tv, stampa, ndr.) abbiano il privilegio di essere gli strumenti per dare voce alla Chiesa. Dobbiamo lavorare, dobbiamo iniziare a diffondere l’dea che la sfida della Chiesa non consiste in questo, ma nel saper cogliere il digitale, anzi i social media, come luoghi privilegiati per riflettere le proprie idee; riflettere in questi luoghi la bellezza della fede, perché questi luoghi sono fatti di persone, sono pieni di persone; sono pieni di donne e uomini che hanno voglia non solo di fare delle domande, ma anche di trovare delle risposte. La Chiesa deve farlo. Non può rimanere chiusa nelle sue idee o nelle sue visioni, ancora ferme spesso a quelle logiche massmediali che ormai sono passate.

Per leggere o ascoltare l’intervista:

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